LE PREVISIONI DEL MESE DI APRILE 2019 PER L’ARIETE IN UN RACCONTO

Leggendo il racconto del mese di Domizia Moramarco, realizzato alla luce dei transiti astrologici che coinvolgono il Segno dell’Ariete in aprile 2019, potrete cercare di comprendere quali saranno le emozioni, le sensazioni che voi Ariete vivrete in questo periodo.

Cercate d’immergervi nella storia, fare parallelismi con la vostra vita reale per scoprire, se c’è, un nesso con il racconto, con i personaggi.

La sera del mio sogno di Domizia Moramarco

Essere moglie di uno scrittore significa imparare a dividere il proprio uomo con il mondo. Ogni volta che egli consegnerà una storia ai suoi lettori, una parte di te e di lui andrà persa. La prima volta che Gustavo si era deciso a spedire a un editore un manoscritto, quello che a fatica aveva completato, dopo avergli scartato davanti agli occhi l’ultimo modello Hermes Baby, simile a quella che Hemingway si portava dietro ovunque, era stato subito un successo. L’entusiasmo con cui la storia era stata accolta lo aveva stupito, ma non me, che del suo talento ero convinta da sempre. La scrittura di Gustavo è sempre stata sconvolgente, ricca di dettagli e intessuta di strabilianti metafore che disorientano il lettore. Le trame inventate rasentano l’assurdo della condizione umana ma lui riusciva a raccontarle con una tale intensità di sentimenti al punto che il lettore finiva per amare i carnefici e puntare il dito contro le vittime perché il suo intento si rivelava quello di ribaltare la morale e spingere il lettore a domandarsi dove finisce il confine tra bene e male, luce e tenebra, giusto e sbagliato.

Gustavo era così, un uomo pieno di contraddizioni interiori. Non decideva mai su due piedi, passava notti a tormentarsi se fosse giusto agire in un modo invece che in un altro. Quando poi, improvvisamente un’epifania si rivelava nella più inaspettata delle azioni quotidiane, dalla pietanza consumata che lo rimandava al sogno della notte precedente al numero di telefono appena composto che conteneva la data del giorno stesso, allora, puntando il dito verso di me, era pronto ad esclamare: “Adesso esco, e tu verrai con me.” E io silenziosa lo seguivo. Mi portava ogni volta ai giardini pubblici dove, mentre dava da mangiare alle anatre, tirando su il capo, mormorava fra sé: “Il momento è giunto.” E solo allora si poteva cominciare a concretizzare una decisione sulla quale si discuteva da giorni. Poteva sembrare strano, bizzarro e addirittura sibillino con i suoi modi di fare, ma io lo amavo così, non avrei potuto scegliere un uomo ordinario, io.

Quando mi hanno telefonato dalla storica Fondazione per il Libro della città di Zermatt per annunciarmi che avrebbero intitolato il premio di un concorso interno al nome di mio marito, chiedendomi di partecipare alla serata in cui avrebbero proclamato il vincitore, il cordless ha rischiato di abbattersi al suolo. Le mani, che non rispondono più da tempo a prese decise, hanno percepito la scossa dell’emozione. La domanda dell’interlocutore dall’altro capo era rimasta a mezz’aria come una foglia d’autunno. Mi sono subito ricomposta, ravvivandomi i radi capelli ingrigiti, e ho risposto: “Ci sarò, con immenso piacere.”

Gustavo è mancato un anno fa. Se n’è andato in silenzio nel sonno, dopo tanto rumore provocato con il successo dei suoi libri. La sua scomparsa per me non è un’assenza. Mi manca, ma non lo sento così lontano da me. L’antico scrittoio di famiglia in stile Luigi XVI e la vecchia Hermes Baby dei primi anni ’50 che si è sempre ostinato a utilizzare nonostante l’avvento del computer, sono sempre lì e quando sono stanca mi appisolo nella grande poltrona del salotto, cullata dal ticchettio dei tasti che non smettono di battere. Gustavo è ancora qui con me.

Oggi è il giorno dell’evento e per questa sera ho deciso di annodare al collo un lungo foulard rosso carminio, come quello che indossavo la prima volta che ho incontrato Gustavo. Era estate, il tramonto incendiava all’orizzonte le chiome piegate dei salici che cercavano ristoro sulle rive del lago. Le libellule ronzavano a pelo d’acqua nella monumentale fontana a pietra bianca dei giardini. L’acqua scrosciava ritmicamente lungo le tre vasche concentriche ondulate a conchiglia. Il puttino, alla sommità della struttura, osservava immobile gli ultimi passanti della giornata. Ricordo bene lo sguardo che quel ragazzone sconosciuto dalla barba bionda e folta mi lanciava dalla panchina dei giardini su cui era svogliatamente adagiato, ma ogni volta che mi voltavo verso di lui, chinava il capo fingendo di guardare altrove, scagliando per aria la ghiaia ai suoi piedi con la punta delle scarpe ricoperte di terriccio. Mi divertivo a provocarlo osservandolo con insistenza, sono sempre stata brava io a sostenere lo sguardo verso chi si dimostra ritroso. Ho sempre amato le sfide e non ricordo di averne mai persa una. Più un’impresa si rivelava ardua sin dall’inizio, più sapevo dentro di me che non avrei fallito. E quanto è stata dura conquistare Gustavo! La sua non era timidezza, ma timore di lasciarsi andare e non c’è niente di peggio che voler scavalcare un muro di marmo talmente scivoloso che più tenti di scavalcare dandoti un’energica spinta, più si innalza davanti a te. Io, come un’agile arrampicatrice, non demordevo mai e riprendevo la corsa verso quel muro. Correvo a perdifiato dandomi grosse spinte a gran velocità, spingevo la gamba in quel duro marmo sollevando rapidamente l’altra e premendo, subito dopo, un piede nell’enorme parete, staccando l’altro.  Non mi arrendevo mai e continuavo a puntare la gamba con la quale avevo iniziato ad arrampicarmi sulla sommità del muro, ma ogni volta, irrimediabilmente, precipitavo ritrovandomi al punto di partenza. Ci avevo provato talmente tante volte, che sentivo il muscolo del cuore tonificarsi a ogni sconfitta. Cadevo e subito mi rialzavo e più la parete aumentava in altezza, più io sapevo che ce l’avrei fatta. E venne quel giorno. Gustavo mi prese la mano e me la baciò. E il mio cuore riprese il battito regolare. Avevo vinto, ma non mi ero mai domandata cosa avrei visto al di là di quel muro, una volta sormontato. Mi ero sempre prefissata di superarlo, ma mai avevo pensato a cosa avrei fatto dopo. Ogni volta, giunta al traguardo, il sapore della vittoria mi ha sempre lasciata sgomenta, come se in fondo vincere è tutto quello che mi aspetta. Il difficile, però, viene dopo. Gustavo questo lo aveva capito e mi aveva preso per mano e io, per la prima volta, mi ero arresa.

Sono le 19.00, il momento di presenziare all’evento come ospite d’onore è giunto, e ancora per la prima volta rischio di restare senza parole. Anche se sono sempre stata io la prima ad avere la giusta intuizione, la prima a decidere e a spingere all’azione, era Gustavo quello che portava a termine tutte le idee. Io mi struggevo nella mia impazienza e mi ritrovavo, ogni volta, paralizzata come una statua di sale, punita come Adit per aver puntato lo sguardo verso le cose del mondo, lasciando indietro il suo cuore e non aver avuto abbastanza fede.

Anche io desideravo diventare una scrittrice, ma non ci ero mai riuscita. Accanto a Gustavo mi sentivo rimpicciolire, ridotta a un’ombra che non riesce a sporgersi alla luce. Riempivo fogli e fogli di notte mentre lui riposava, dopo aver scritto febbrilmente durante il giorno, chino sulla vecchia macchina da scrivere. Mi piaceva osservare la sua spalla ricurva mentre le scapole si muovevano regolarmente al battito delle dita sulla sua Hermes Baby. Era un ritmo che scandiva dolcemente le nostre giornate, quelle che io organizzavo come un generale severo alla guida del suo esercito. Così di giorno Gustavo scriveva e io badavo alla casa e alle faccende burocratiche degli introiti delle sue pubblicazioni, alle interviste con i giornalisti locali, agli incontri nelle librerie; cucinavo per lui, vigilavo su di lui come una madre fa con il suo figlio prediletto e tutto questo non mi pesava mai, mi rendeva appagata perché dentro me continuavo a ripetermi che senza di me lui sarebbe stato perso. Le parole che buttavo giù nel silenzio della notte affollavano i miei pensieri durante la giornata, ma non trovando mai il tempo per sedermi a scriverle, di fronte alla macchina da scrivere si confondevano e al buio perdevano la loro bellezza. All’arrivo dell’alba appallottolavo fogli, alle volte li strappavo con rabbia, mai soddisfatta del risultato, e intanto un nuovo giorno ricominciava.

La sala della premiazione si riempie. Ubicata all’interno di uno stabile di inizio Novecento dalla facciata leziosamente decorata, è arredata in stile liberty. L’ultima luce del giorno filtra abbondantemente dalle fregiate vetrate colorate. Il soffitto presenta intarsi floreali in gesso da cui pendono sontuosi lampadari in ferro battuto con leziosi piattini sui quali sembrano fondersi vecchi portacandele ingialliti. A ridosso delle pareti spuntano applique a tre bracci in ferro con gocce di cristallo bianche. Sulle scrivanie agli angoli della stanza, coppie di lampade accese dai paralumi in vetro bicolore diffondono caldi riflessi. Il parquet sotto i miei piedi è ben lucidato; i tratti scrostati si intravedono appena sotto i piedi delle sedie in noce tappezzate in Radcliffe, sistemate per il pubblico. Vedo accomodarsi in prima fila una ragazza. Dopo essersi guardata intorno, prima di sedersi, tira fuori dallo zainetto di stoffa scolorita penna e taccuino. Inforca un paio di occhiali dalle lenti spesse e le sistema sul naso adunco che stona in un viso dall’ovale perfetto. A pensarci bene, però, le dona lo sguardo da aquilotto rapace e attento. Sarà una giornalista, o meglio una blogger, di quelle che in rete si sono sostituite alle prime, ormai. Animata da passione e da una rampante curiosità, trascorrerà ore davanti al pc a digitare articoli dopo aver letto tomi di critica letteraria e aver controllato l’indicizzazione dei suoi ultimi pezzi. Per lei svolgere il suo lavoro sarà come tenere una bilancia sulla testa: da un lato pende la voglia di realizzare pezzi impeccabili, dall’altra la necessità di assicurarsi un pubblico valido e fedele ma frettoloso nella lettura. Il vocio sempre più insistente si diffonde fra i presenti, i posti a sedere diminuiscono. Pensare di dover parlare dinanzi a tanta gente mi provoca tensione. Era Gustavo che prendeva sempre la parola, io restavo accucciata in prima fila a sostenerlo con lo sguardo e ad applaudire per prima alla fine di ogni intervento. Tante volte gli avevo infilato in tasca un foglio su cui avevo tracciato una scaletta per i suoi discorsi, ma puntualmente diceva di essersene dimenticato e parlava a braccio, rapendo il pubblico con aneddoti seducenti, interrotti da sagaci battutine che suscitavano ilari risate. Il mio discorso per questa sera è serio, professionale, tutto improntato sull’elogio di Gustavo.

“Che onore Signora Sherrer averla qui questa sera!” Il Presidente della fondazione mi si avvicina tendendomi la mano. Gliela porgo tremante e la stretta decisa che ricevo mi provoca un piccolo giramento di testa. “Si accomodi pure con me sulla pedana” continua cedendomi il passo. Quando sento il rimbombo del legno vuoto sotto i miei passi, mi torna alla memoria la sera in cui Gustavo aveva ricevuto il suo primo premio, il guizzo di orgoglio nei suoi occhi, il cuore che mi spaccava il petto dalla felicità. Sulla scrivania che predomina al centro del podio, è sistemato un vassoio d’argento con lunghi calici e una bottiglia di champagne. Avrei preferito dell’acqua a quest’ora della sera.

“Litigavate mai, lei e suo marito?” Arriva così l’ultima domanda dalla prima fila. La blogger ambiziosa ha tenuto per tutto il tempo del discorso la mano alzata, ma solo poco prima della consegna del premio, il Presidente ha deciso di darle la parola.

“Ohhh se litigavamo!” e mi porto una mano alla bocca. Lo champagne comincia a sciogliermi. “Volavano piatti, ragazza mia quando noi due litigavamo. Ricordo che una volta ne ho rotti ben cinque! E vuoi sapere perché proprio cinque?” aggiungo mentre mi abbandono a una risatina “perché dopo averne lanciati per aria già quattro, sapevo che solo così mi sarei liberata una volta per tutte dell’odioso servizio di porcellana tramandato per generazioni e ricevuto per le nozze!” Con mio grande stupore sento levarsi un fragoroso applauso dal pubblico. Mi ricompongo e, appena il silenzio torna a calare, riprendo con espressione seria: “Ragazza mia, devi sapere che i litigi erano il nostro forte” e sento che qualcuno si abbandona a una nuova risata. “Erano il sale del nostro rapporto e vuoi sapere chi iniziava sempre? Ma certo che ero io a iniziare! Io accendevo la fiammella e poi la alimentavo per renderla un incendio! Hai mai sentito due litigare sottovoce e per pochi minuti? I nostri litigi duravano ore! Ma guai ad addormentarci senza aver risolto. Parole, urla, stoviglie rotte … e poi abbracci e ancora parole, questa volta dolci, sommesse … e infine baci.” Il pubblico resta ammutolito, poi si alza un nuovo applauso, che supera di intensità quello di poco fa.

In quel momento il Presidente si avvicina al microfono riportando i presenti all’ordine e comunica che è giunto il momento di proclamare il vincitore del premio. “Ad annunciarlo, come sapete, sarà la Signora Sherrer” e così dicendo mi porge la busta che contiene il nome dell’imminente premiato. La apro lentamente e schiarendomi la voce comincio a leggere il nome: “Emm…” Non riesco a continuare. Il mio sguardo passa dal foglio al viso del Presidente, che mi esorta a continuare. Penso che sia un errore, sul foglio infilato nella busta c’è scritto proprio Emma Fisher. Emma Fisher sono io. Il Presidente mi mette tra le mani un libro.

Sento il velo delle lacrime calare sugli occhi alla vista di quelle parole e mi sembra di scorgere le mani di Gustavo che al suo risveglio raccolgono, srotolano e poi stiracchiano per bene i fogli appallottolati nel cestino. Quelle storie, i personaggi, gli odiati dialoghi, la parte sempre più difficile di una trama da scrivere, adesso rivivono in un libro, un vero libro che stringo tra le mie dita, di cui accarezzo la copertina lucida e assaporo il profumo delle pagine che sfoglio avidamente. Questo libro è mio, è fatto di tanti pezzi di me, scomposti nelle notti infinite che odorano di fallimento, notti di tormenti e insicurezze, di paure di non riuscirci mai, che Gustavo ha segretamente rimesso assieme per farne un romanzo completo. E questa sera manco solo io a scriverne la conclusione, con la mia presenza, adesso che io, finalmente, ne sono diventata la protagonista e non è ancora spuntata l’alba.