Italo Calvino, a proposito di Mercurio, Saturno, Vulcano, scrive in Lezioni americane:

Mi rendo conto che questa conferenza, fondata sulle connessioni invisibili, si
è ramificata in diverse direzioni rischiando la dispersione. Ma tutti i temi che ho
trattato questa sera, e forse anche quelli della volta scorsa, possono essere
unificati in quanto su di essi regna un dio dell’Olimpo cui io tributo un culto
speciale: Hermes-Mercurio, dio della comunicazione e delle mediazioni, sotto il
nome di Toth inventore della scrittura, e che, a quanto ci dice C.G. Jung nei suoi
studi sulla simbologia alchimistica, come “spirito Mercurio” rappresenta anche il
principium individuationis.
Mercurio, con le ali ai piedi, leggero e aereo, abile e agile e adattabile e
disinvolto, stabilisce le relazioni degli dèi tra loro e quelle tra gli dèi e gli uomini,
tra le leggi universali e i casi individuali, tra le forze della natura e le forme della
cultura, tra tutti gli oggetti del mondo e tra tutti i soggetti pensanti. Quale
migliore patrono potrei scegliere per la mia proposta di letteratura?
Nella sapienza antica in cui microcosmo e macrocosmo si specchiano nelle
corrispondenze tra psicologia e astrologia, tra umori, temperamenti, pianeti,
costellazioni, lo statuto di Mercurio è il più indefinito e oscillante. Ma secondo
l’opinione più diffusa, il temperamento influenzato da Mercurio, portato agli
scambi e ai commerci e alla destrezza, si contrappone al temperamento
influenzato da Saturno, melanconico, contemplativo, solitario. Dall’antichità si
ritiene che il temperamento saturnino sia proprio degli artisti, dei poeti, dei
cogitatori, e mi pare che questa caratterizzazione risponda al vero. Certo la
letteratura non sarebbe mai esistita se una parte degli esseri umani non fosse
stata incline a una forte introversione, a una scontentezza per il mondo com’è, a
un dimenticarsi delle ore e dei giorni fissando lo sguardo sull’immobilità delle
parole mute. Certo il mio carattere corrisponde alle caratteristiche tradizionali
della categoria a cui appartengo: sono sempre stato anch’io un saturnino,
qualsiasi maschera diversa abbia cercato d’indossare. Il mio culto di Mercurio
corrisponde forse solo a un’aspirazione, a un voler essere: sono un saturnino che
sogna di essere mercuriale, e tutto ciò che scrivo risente di queste due spinte.
Ma se Saturno-Cronos esercita un suo potere su di me, è pur vero che non è
mai stato una divinità di mia devozione; non ho mai nutrito per lui altro
sentimento che un rispettoso timore. C’è invece un altro dio che ha con Saturno
legami d’affinità e di parentela a cui mi sento molto affezionato, un dio che non
gode d’altrettanto prestigio astrologico e quindi psicologico non essendo il
titolare d’uno dei sette pianeti del cielo degli antichi, ma che pur gode d’una gran
fortuna letteraria fin dai tempi d’Omero: parlo di Vulcano-Efesto, dio che non
spazia nei cieli ma si rintana nel fondo dei crateri, chiuso nella sua fucina dove
fabbrica instancabilmente oggetti rifiniti in ogni particolare, gioielli e ornamenti
per le dee e gli dèi, armi, scudi, reti, trappole. Vulcano che contrappone al volo
aereo di Mercurio l’andatura discontinua del suo passo claudicante e il battere
cadenzato del suo martello.
Anche qui devo riferirmi a una lettura occasionale, ma alle volte idee
chiarificanti nascono dalla lettura di libri strani e difficilmente classificabili dal
punto di vista del rigore accademico. Il libro in questione, che ho letto quando
studiavo la simbologia dei tarocchi, si intitola Histoire de notre image, di André
Virel (Genève, 1965). Secondo l’autore, uno studioso dell’immaginario collettivo
di scuola – credo – junghiana, Mercurio e Vulcano rappresentano le due funzioni
vitali inseparabili e complementari: Mercurio la sintonia, ossia la partecipazione
al mondo intorno a noi; Vulcano la focalità, ossia la concentrazione costruttiva.
Mercurio e Vulcano sono entrambi figli di Giove, il cui regno è quello della
coscienza individualizzata e socializzata, ma per parte di madre Mercurio
discende da Urano, il cui regno era quello del tempo “ciclofrenico” della
continuità indifferenziata, e Vulcano discende da Saturno, il cui regno era quello
del tempo “schizofrenico” dell’isolamento egocentrico. Saturno aveva detronizzato
Urano, Giove aveva detronizzato Saturno; alla fine nel regno equilibrato e
luminoso di Giove, Mercurio e Vulcano portano ognuno il ricordo d’uno degli
oscuri regni primordiali, trasformando ciò che era malattia distruttiva in qualità
positiva: sintonia e focalità.
Da quando ho letto questa spiegazione della contrapposizione e
complementarità tra Mercurio e Vulcano, ho cominciato a capire qualcosa che
prima d’allora avevo solo intuito confusamente: qualcosa su di me, su come sono
e su come vorrei essere, su come scrivo e come potrei scrivere. La
concentrazione e la craftsmanship di Vulcano sono le condizioni necessarie per
scrivere le avventure e le metamorfosi di Mercurio. La mobilità e la sveltezza di
Mercurio sono le condizioni necessarie perché le fatiche interminabili di Vulcano
diventino portatrici di significato, e dalla ganga minerale informe prendano
forma gli attributi degli dèi, cetre o tridenti, lance o diademi. Il lavoro dello
scrittore deve tener conto di tempi diversi: il tempo di Mercurio e il tempo di
Vulcano, un messaggio d’immediatezza ottenuto a forza d’aggiustamenti pazienti
e meticolosi; un’intuizione istantanea che appena formulata assume la
definitività di ciò che non poteva essere altrimenti; ma anche il tempo che scorre
senza altro intento che lasciare che i sentimenti e i pensieri si sedimentino,
maturino, si distacchino da ogni impazienza e da ogni contingenza effimera.
Ho cominciato questa conferenza raccontando una storia, lasciatemi finire
con un’altra storia. È una storia cinese.
Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il re gli chiese il
disegno d’un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di
tempo e d’una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni il disegno non era
ancora cominciato. “Ho bisogno di altri cinque anni” disse Chuang-Tzu. Il re
glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un
istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si
fosse mai visto.