L’articolo seguente è stato pubblicato sul Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura fondato da Aldo Carotenuto, edito da Alpes.

La distanza, dal latino distare, indica lo stare lontano, ma anche lo spazio fisico o immaginativo fra due “oggetti”. Io disto sempre da qualcosa, il verbo distare ha bisogno di una “specificazione”, di un altro oggetto. Distare presuppone una relazione fra due elementi. In greco distare si dice ἀπόστασις (apóstasi): apostasia che può essere interpretato come la possibilità di allontanarsi da un oggetto, da un pensiero, da una storia personale costruita con l’esperienza, con cui si è in relazione per cercare altre strade da intraprendere, altre scelte, altri racconti. Ogni giorno noi siamo di fronte a delle scelte, non possiamo non scegliere e, per prendere coscienza di cosa scegliere, abbiamo bisogno della coscienza. J. P. Sartre scrive nell’Essere e il Nulla che la coscienza è sempre coscienza di “qualcosa”, la coscienza è “tetica”, “posizionale”, “intenzionale”. Per distare da qualcosa dobbiamo prendere una posizione rispetto a questa, dobbiamo, quindi, scegliere. Il nodo importante della discussione passa dalla distanza alla scelta.

Per Platone la scelta che l’uomo fa quotidianamente nella propria vita è quella descritta nel mito di Er. In questo racconto il soldato morto in battaglia si trova nel luogo in cui le anime passano da una vita all’altra, ma come avviene questo passaggio, questa nuova incarnazione? Le anime portano con sé il proprio passato appena vissuto, il loro corpo è morto. Vengono invitate a scegliere il kleros che può significare: pezzo di terra, spazio, nel senso di ordine delle cose, oppure eredità; secondo James Hillman, i kleroi sono immagini e l’anima sceglie secondo ciò che più l’attrae.

Platone narra che Lachesi, figlia di Ananke, avverte le anime su come effettuare la scelta del proprio destino, dicendo:

anime, che vivete solo un giorno (ephémeroi), comincia per voi un altro periodo di generazione mortale, portatrice di morte (thanotephòron). Non vi otterrà in sorte un dàimon, ma sarete voi a scegliere il dàimon. E chi viene sorteggiato per primo scelga per primo una vita, cui sarà necessariamente congiunto. La virtù (areté) è senza padrone (adéspoton) e ciascuno ne avrà di più o di meno a seconda che la onori o la spregi. La responsabilità è di chi sceglie; il dio non è responsabile[1]

La responsabilità diventa la parola fondamentale, non è colpa della divinità, di qualcosa di esterno per quello che siamo e per quello che ci capita, ma siamo noi ad aver liberamente scelto, condizionati anche dalle esperienze passate. Le anime, infatti, quando scelgono il nuovo destino ricordano il loro passato e dovrebbero scegliere con misura in funzione dei loro trascorsi, ma non accade sempre così, si lasciano andare a scelte di comodo. Mettere le distanze fra il proprio passato e il futuro che si potrebbe costruire è un atto di mediazione, un atto riflessivo, prendere posizione rispetto a ciò che si è stati e si vorrebbe diventare. Questo tipo di scelta ci condurrà all’eudaimonia, alla felicità, al buon daimon che come ricorda Galimberti si può raggiungere attraverso la conoscenza di sé stessi e l’arte della misura, del mettere misura in tutto ciò che si fa e si desidera.

Effettuata la scelta, l’anima si presenta alla Moira Lachesi che suggella la scelta del daimon, il quale le farà da “guardiano”, da genio, per tutta la vita e farà in modo che il destino da lei, liberamente scelto, si compia. Il daimon è già dall’inizio un tutt’uno con il kleros scelto. Subito dopo passerà dalla sorella Cloto che con il suo fuso volge il filo destinico e lo ratifica, per poi giungere dall’ultima sorella, Atropo, che lo renderà irreversibile e dal quale non si potrà tornare indietro. L’avallo finale sarà dato da Ananke (Necessità) che sigillerà il destino di quell’anima. L’uomo è quindi responsabile della scelta, della distanza che intende mettere fra sé e il mondo.

Aristotele, nell’Etica Nicomachea, afferma che la scelta è accompagnata da ragione, cioè da pensiero e può essere di due tipi: volontaria e involontaria. Quanto di importante emerge è che la scelta presenta sempre un’attività, un’azione da parte dell’uomo. I latini usavano il verbo diligere per indicare sia la scelta, sia amare qualcuno o qualcosa; la scelta è quindi una manifestazione affettiva in direzione di un oggetto. Quando affermiamo: “io prediligo questo a quello” intendiamo dire che ci piace di più uno rispetto all’altro, preferiamo, amiamo.

Del medesimo orientamento di Aristotele è Immanuel Kant, che nella Critica della Ragion Pura afferma che la libera scelta è un’azione umana che può essere indirizzata, ma non determinata dagli impulsi umani. Il cervello dell’uomo può avere sempre l’ultima parola rispetto a cosa scegliere.

Per Søhren Kierkegaard l’uomo diventa quello che è in funzione del modello di vita che si dà e delle scelte che effettua all’interno di quel modello, è dunque libero di scegliere, ma non di non scegliere. L’uomo per Kierkegaard vive in un perenne stato di angoscia dovuto al fatto di scegliere, questo stato non è situazione che lo renda fortunato, ma è un vero e proprio dramma. Il soggetto ha sempre davanti a sé due alternative, tra una possibilità che qualcosa si faccia o non si faccia ma non possiede la spinta necessaria alla scelta e resta perennemente indeciso senza riuscire a dare una direzione alla propria vita in modo intenzionale.

La scelta più importante e che dà senso all’essere vissuto è quella che secondo Martin Heidegger scatena nell’uomo l’angoscia, ovvero il sapere che non si può eludere la morte. Di fronte alla morte, che è il dato certo che ci viene fornito quando siamo sulla terra, l’uomo è spinto a comprendere cosa sia davvero utile per lui, cosa abbia davvero senso, le scelte che vanno fatte perché profondamente sentite. Per esempio, quando scegliamo di dedicarci totalmente al lavoro, alla famiglia, ecc. e riteniamo che questa scelta sia ineludibile, l’uomo vive un’esistenza inautentica. Nel corso della sua vita gli eventi si ripeteranno sempre uguali, sempre allo stesso modo in senso circolare, quasi noioso e deprimente. Ma quando l’angoscia ci ricorda che il nostro fine ultimo è la morte, allora le scelte sono più misurate, più attente, diventano scelte autentiche. L’essere per la morte per Heidegger non è una visione pessimistica della vita ma spinge il soggetto ad arrivare all’essenza della vita e a scegliere ciò che davvero è funzionale e fa star bene.

Dopo questo rapide riflessioni sulla distanza e la scelta proviamo a cercare dei punti comuni con l’astrologia.

Per scegliere, per farci un’idea rispetto a quello che accade davanti a noi, prima di tutto, abbiamo bisogno di raccogliere le informazioni. La divinità che, simbolicamente, compie quest’azione di “mietitura” e le sposta da una parte all’altra, è Mercurio. Mercurio è lo psicopompo, la guida delle anime dei defunti, in una certa maniera possiamo pensare che accompagnasse anche Er nel suo viaggio ultramondano. Mercurio era libero di fare avanti e indietro dal regno dei morti, egli risuona con l’essere per la morte di Heidegger.

L’uomo è portato naturalmente a scegliere la strada che lo fa star bene, sceglie in direzione del piacere; la divinità che è in relazione con il piacere è Venere, governatrice del Segno del Toro, conosciuta anche come Afrodite pandemia. Per scegliere agisco, mi muovo nella direzione dell’oggetto, in astrologia l’azione è governata da Marte, l’amante di Venere.

Venere è anche la signora del Segno della Bilancia, Afrodite urania. Questo Segno, già nel glifo, in cui troviamo i due piatti, rappresenta la necessità della misura, dell’equilibrio, della giusta scelta, del piacere procurato dall’armonia, che può diventare indecisione nel momento in cui si cerca le perfeziona assoluta. È lo stato d’animo di cui parla Kierkegaard nel momento in cui l’uomo deve scegliere fra il sì e il no, tra una possibilità e l’altra. Nel Segno della Bilancia troviamo anche le caratteristiche della dea Atena, la stratega, la giustizia con la sua spada, che divide in due, come Damocle, la realtà: giusto e sbagliato. Il Segno opposto alla Bilancia è l’Ariete, governato da Marte, quello opposto al Toro è lo Scorpione, per gli antichi governato da Marte anche lui, e da Plutone, divinità degl’inferi, della morte. Si noti come quanto descritto in precedenza risuoni con la dialettica zodiacale. Non c’è piacere, equilibrio se non c’è azione direzionata. Venere e Marte vanno sempre in coppia, si oppongono e completano nella coincidentia oppositorum cara a Niccolò Cusano.

Chi sceglie siamo noi, il nostro io, la nostra coscienza che ha preso visione del reale. L’Io e la coscienza in astrologia sono rappresentati dal Segno Ascendente, che sorge ad Oriente, ed è necessario per orientarsi nella visione del mondo, nelle scelte che facciamo. Le informazioni raccolte da Mercurio arrivano alla coscienza che si orienta in direzione di Venere, di ciò che piace, di ciò che sembra essere di “valore” e, come ultima azione, il soggetto cosciente sceglie con Marte. Di fronte alla scelta possiamo essere inizialmente presi di sorpresa, disorientati, ma se guardiamo all’Ascendente ritroviamo la bussola.

 

Se orientarsi è volgersi a oriente, il senso dell’orientamento è la capacità di riconoscere i punti cardinali. Che sono quattro e si mescolano in gradazioni infinite. Dell’orientamento si può dire che è spaziale, sessuale, professionale, politico: ha a che fare con lo stare al mondo e la conoscenza delle proprie posizioni. Che si possono perdere e ritrovare. L’orientamento si stabilisce in base ai punti cardinali e dunque al percorso del sole, alla direzione delle ombre, alla posizione delle stelle. […] Per orientarsi, l’umano competente mescola le diverse componenti sensoriali ad alcune operazioni cognitive. E costruisce strumenti: carte, sestanti, bussole e sistemi di posizionamento globale come il gps.[2]

 

La parola Oriente deriva dal verbo òrior: nascere, sorgere, volgersi. La particella “dis-“ conduce al suo significato opposto il verbo “non nascere”, “non sorgere”, “non volgersi”. Siamo dis-orientati quando “non nasciamo”, quando “non sorgiamo”, quando “non ci volgiamo” a Oriente, quando non comprendiamo il telos, lo scopo, dove siamo diretti, quando non abbiamo una mappa del mondo attraverso cui muoverci, quando non abbiamo una visione chiara di ciò che ci sta attorno. Siamo disorientati difronte alla scelta, c’è un momento di “nulla”, in senso sartriano, che si pone fra me e le scelte che devo fare. E’ come lo spazio transizionale di Donald Winnicott[3], lo spazio del gioco, in cui In questo nulla, prima che si agisca, si debbano fare strada Venere, il piacere, e poi Marte, la scelta.

Mettere le distanze dai nostri pensieri, dal mondo, ci permette di ri-orientarci, ci fa prendere una pausa dalla frenesia, da ciò che ci procura angoscia, ma necessariamente ci ricondurrà a nuove scelte, torneremo al punto di partenza. Filosofia e astrologia diventano strumenti per riflettere sullo stato dell’essere umano e sulla possibilità di dare un senso al proprio vissuto. La distanza diviene lo strumento necessario per orientarci e scegliere. Ho usato la parola “necessario” nel senso di Ananke, come qualcosa di ineludibile, che appare nella nostra vita quando siamo di fronte al nostro percorso d’individuazione. Sono tentato nell’affermare che tanto sono più difficili le scelte da fare nella vita, tanto più siamo vicini ad Ananke, al nostro destino che si fa presente. L’astrologia e la mitologia che l’accompagna, possono essere uno strumento immaginale, come molti altri, per rileggere la nostra vita e inserirla in una mappa del destino necessario, ma libero nella scelta.

Il carattere aveva un rifugio migliore, il più antico, alla larga da accademie militari, pulpiti e orfanotrofi: l’astrologia, dove peraltro fiorisce a tutt’oggi. La vitalità popolare dell’astrologia attesta il bisogno che abbiamo di una psicologia del carattere per orientarci nella vita. L’astrologia propone il linguaggio dei tratti. A volte si lascia irretire nella trappola del conteggio numerico pseudoscientifico, a volte si appiattisce sulla richiesta, posta dall’Io pratico, di ottenere il successo, di trovare l’amore, di cavarsela dai guai. La sua virtù principale, tuttavia, rimane la rappresentazione di un cielo pieno di caratteristiche che rimandano l’anima individuale a potenze archetipiche.[4]

 

[1] Platone, La Repubblica, 617d.

[2] Lingiardi, V., Psiche nel Paesaggio, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2017

[3] Winnicott, D. ,Gioco e Realtà, Milano, Armando Editore, 2005

[4] Hillman, J., La forza del carattere, Milano, Adelphi, 2000