La psicologia archetipica è una struttura sistematica di pensiero che si è posta sin dai suoi fondamenti l’idea di andare oltre il vecchio concetto di psicoterapia e indagine clinica trovando il suo posto nelle radici della cultura occidentale e nella sua immaginazione. Non è più soltanto qualcosa che appare avulsa dal mondo e si ferma alla semplice parola, allo scambio analitico nella stanza dello psicoterapeuta, ma ritrova il proprio posto all’interno della vita reale del soggetto, della sua quotidianità, della sua totale partecipazione al mondo secondo il proprio modo di essere che non è più “patologico”, quindi etichettato con valenze positivo-negativo, ma divino, mitico e immaginario. La psicologia archetipica è:
una psicologia che volutamente si collega con le arti, la cultura e la storia della società, le quali traggono anch’esse origine dall’immaginazione. Il termine “archetipico” contrapposto al termine “analitico”, che è la qualifica abituale della psicologia junghiana – è stato scelto non soltanto perché rifletteva «gli approfondimenti teorici dell’ultimo Jung, che tenta di risolvere i problemi psicologici andando oltre i modelli scientifici» (ibid.), ma, e soprattutto, perché ciò che è “archetipico” appartiene a tutta la cultura, a tutte le forme dell’attività umana, e non esclusivamente ai professionisti della moderna terapeutica. [1]
L’archetipo è la forma entro la quale esperiamo il mondo, appartiene alla psiche e all’inconscio collettivo; il mondo, i nostri vissuti sono archetipici, qualsiasi attività umana rientra in questa catalogazione, la psicologia archetipica permette la comprensione e l’utilizzo di queste connessioni. Affermato ancora in modo più chiaro:
Gli archetipi ci obbligano a un discorso di stile immaginativo. Jung anzi — che reintrodusse l’antica idea di archetipo nella psicologia moderna — ne parla proprio come di metafore, insistendo sulla loro indefinibilità. Ne segue che la scelta d ’una prospettiva archetipica in psicologia porta a una visione della fondamentale natura e struttura dell’anima secondo modalità immaginative, e a privilegiare l’immaginazione quale mezzo per accostarsi agli interrogativi fondamentali della psicologia. Immaginiamo quindi gli archetipi come i modelli più profondi del funzionamento psichico, come le radici dell’anima che governano le prospettive attraverso cui vediamo noi stessi e il mondo.[2]
Poiché gli archetipi sono presenti in tutte le manifestazioni del mondo, umane, animali, naturali, si pensi alla spirale di Fibonacci, per esempio, allora qualsiasi nostra attività è in relazione con loro, discipline scientifiche, metafisiche e così via.
Il linguaggio primario e irriducibile di questi modelli archetipici è il discorso metaforico dei miti, che possiamo quindi considerare i modelli fondamentali dell’esistenza umana. Per studiare la natura umana al suo livello basilare, bisogna rivolgersi a quelle sfere della cultura (mitologia, religione, arte, architettura, epica, dramma, riti) dove questi modelli sono rappresentati. Questo distacco dalla base biochimica, storico-sociale e personale-comportamentale della natura umana in direzione dell’immaginativo presuppone ciò che ho chiamato «la base poetica della mente.[3]
L’archetipo è accessibile attraverso l’immaginazione e si presenta come immagine, dunque tutto il processo della psicologia archetipica e i suoi metodi sono immaginativi, di conseguenza la poetica, la retorica e non il ragionamento logico devono essere gli strumenti per riavvicinare il paziente, nel caso della terapia, alla propria realtà immaginale, alla connessione con l’anima e con tutto il mondo. Cosa significa riavvicinare l’uomo alla propria anima? Partiamo dal presupposto che il nostro mondo è diviso in psiche (idea, logica, spirito) e materia (corpo, natura, mondo empirico), l’anima si pone come mediatrice, tertium tra i due mondi, è il demiurgo, Mercurio che permette di guardare dall’esterno entrambi e trovare un senso, quindi organizzare il nostro vissuto, psiche e materia, attraverso la sincronicità.
Per ≪anima≫ io intendo, prima di tutto, più che una sostanza, una prospettiva, più che una cosa in sé, una visuale sulle cose. Questa prospettiva e riflessiva; essa media gli eventi e determina le differenze tra noi stessi e tutto ciò che accade. Tra noi e gli eventi, tra l’agente e l’azione, c’è un momento riflessivo — e fare anima significa differenziare questa zona intermedia.[4]
Per anima Hillman interpreta anche quella componente sconosciuta che trasforma gli eventi in esperienze. Attorno a noi accadono tante cose di cui non siamo consapevoli, magari le vediamo ma la nostra coscienza non ci fa caso, questi sono gli eventi. Proviamo a pensare, per esempio, che alle nostre spalle accadono delle cose, eventi, che non percepiamo, ma quando ce ne accorgiamo diventano esperienze. A un livello più profondo queste esperienze assumono un significato, è l’anima che permette l’esperienza, che non è solo fisica, ma portatrice di valori per noi, di significato. Le esperienze più importanti che facciamo per la psicologia analitica e archetipica, che ci portano significato, sono quelle sincronistiche, poiché c’indirizzano, ci danno un senso.
Per maggior chiarezza riporto la definizione che fornisce Hillman di anima:
In primo luogo, ≪anima≫ si riferisce all’approfondirsi degli eventi in esperienze; in secondo luogo, la densità di significato che l’anima rende possibile, nell’amore o nell’ansia religiosa, deriva dal suo speciale rapporto con la morte. In terzo luogo, per ≪anima≫ io intendo la possibilità immaginativa insita nella nostra natura, il fare esperienza attraverso la speculazione riflessiva, il sogno, l’immagine e la fantasia — in breve, quella modalità che riconosce ogni realtà come primariamente simbolica o metaforica.[5]
L’uomo è immaginativo e ha la possibilità di riconoscere la realtà come infiniti rimandi tra simbolo e metafora, ha bisogno di trovare un senso ai propri accadimenti, ha quindi urgenza di esperienze che gli facciano comprendere i motivi dell’esistenza alla luce del fatto che la vita sembri essere qualcosa di finito. Le conoscenze che permettono di fare questo “fanno anima” e i consentono di vivere in pienezza, nell’ambivalenza della psiche, come scriveva Hillman nel Puer aeternus.
Evidenziando che l’anima sia immaginativa e capace di produrre fantasie che permettono di trovare nella realtà i simboli e le metafore stiamo con forza affermando che tutti questi modi e mezzi di anima uniscono psiche e materia, realtà psichica esperita e mondo fisico. È un salto importante che è fondante la psicologia archetipica al punto tale che Hillman scrive:
[…] l’anima è costituita da immagini, che è in primo luogo un’attività immaginativa, manifestantesi nel modo più spontaneo e paradigmatico nel sogno.[6]
Appare urgente quindi definire cosa siano le immagini che l’anima produce poiché sono gli strumenti che ci permettono di relazionarci con l’archetipo, in aggiunta al fatto che l’anima dà prova della sua esistenza attraverso la personificazione. Ma andiamo per gradi.
Jung evidenzia che la psiche si esprime per immagini, Hillman che è l’anima a farlo, allora psiche e anima combaciano, c’è la psiche dell’indivdiduo che pesca le immagini nell’anima, che è un sottoinsieme infinito infatti scrive:
L’immagine non ha infatti alcun referente oltre se stessa, né propriocettivo, né esterno, né semantico: “Le immagini non significano niente; esse sono la psiche stessa nella sua visibilità immaginativa; [7]
Le immagini sono quindi il modo di vedere la realtà, di trasformare gli eventi in esperienze, sono la prospettiva attraverso la quale vediamo ciò che c’è dietro i fenomeni. Quando ci accade qualcosa possiamo provare a guardare questi eventi così come fanno i bambini, a dargli un nome, un volto, ad animarli, a personificarli. Possiamo cercare un’entità, una divinità che sia fondante la nostra esperienza, Hillman afferma che la personificazione avviene anche per gli artisti, gli scrittori poiché quando dipingono un personaggio non fanno altro che portare fuori di sé i loro miti personali. Noi siamo colmi di divinità che ci abitano e ognuna di esse ha diritto di esistenza, desidera essere vista. Possiamo farlo attraverso la personalizzazione e la visione in trasparenza, possiamo evocarle affinché si mostrino a noi e appaiono in fondo come gli dèi del mito.
Ora concepiamo la nostra natura come qualcosa di naturalmente suddiviso in parti e in fasi, come un composto di livelli storici antichi e più recenti, di varie zone e strati evolutivi, di molti complessi e persone archetipiche. Non siamo più esseri singoli fatti a immagine di un singolo Dio, bensì sempre composti da una molteplicità di parti: bambino malizioso, eroe o eroina, autorità vigilatrice, psicopatico […][8]
Il tema natale astrologico si compone dei dodici Segni e ciascuno di loro possiede uno o più miti che lo rappresentano. Se pensiamo al Segno del Capricorno, la costellazione raffigura sia il dio Pan che la capra Amaltea a seconda del narratore che seguiamo. Questo non è un errore, anzi l’astrologia viene arricchita da siffatti racconti e si avvicina ancor più all’anima e alle sue immagini archetipiche che sono forme sostanziali ma sfuggenti. Quando ricordiamo qualcosa che abbiamo vissuto siamo sicuri dell’esperienza fatta, per esempio pensiamo a nostra madre che ci nutriva da piccoli, ma questo ricordo è un’immagine costruita da psiche, un complesso a tonalità affettiva a cui anche le emozioni sono collegate. Questa memoria è possibile soltanto perché c’è un contenitore che ne permette l’esistenza ovvero l’archetipo della madre che tra le sue caratteristiche possiede quella di nutrire e con essa tutti i possibili miti collegati. Con ciò non voglio dire che venga prima il mito del mio vissuto, ma il fatto che io possa raccontarlo e farlo diventare esperienza accade proprio perché vi è l’archetipo che può accoglierlo in forma mitologica. Allora avrò, come nel caso della madre, dodici possibili Segni in cui la Luna, la madre astrologica, potrebbe trovarsi ed esprimere uno degli infiniti possibili ricordi/esperienze di chi mi ha messo al mondo e nutrito. Potrei avere esperienza di una madre aggressiva, ma decisa oppure di una madre che si sacrifica e si batte con grande energia, sarà sempre una possibile rappresentazione della Luna in Ariete. L’esempio appena portato non è esaustivo rispetto al fatto che sia solo la Luna una possibile rappresentante dei ricordi di nostra madre. Tutte le divinità, anche maschili, possono portare con sé alcuni significati ricollegabili alla madre che possiamo leggere attraverso una specifica tecnica interpretativa del tema natale. Freud sottolineava inoltre che i nostri istinti sono esseri mitici, così come l’istinto materno. Già il padre della psicoanalisi intuiva come gli istinti abbiano qualcosa di ancestrale e profondo.[9]
Lo stesso Jung si riferiva agli archetipi sempre come persone: Vecchio Saggio, Puer, Anima, Animus la personificazione è necessaria alla psiche; l’astrologia è un linguaggio personificato fatto di dèi e d’immagini che dialogano tra loro, sfumando l’uno nell’altro e arricchendosi allo stesso tempo delle caratteristiche di ciascuno. Questi dèi sono immagini mentali, sono esperienza, l’immagine è psiche e la psiche crea giorno per giorno la realtà. A questa attività non so dare altro nome che quello di fantasia.[10]
Per fare anima allora possiamo anche passare dalle immagini, dalle divinità dell’astrologia. Si parla quindi di moltitudine di dèi che ci possiedono e possono fare di noi quello che vogliono, sono parti della nostra coscienza, in tal senso l’astrologia è un sistema politeistico. Abbiamo più possibili coscienze ciascuna da utilizzare in momenti diversi: al lavoro, in famiglia, con gli amici e ognuna di esse può essere dominata da una o più divinità. Le case astrologiche rappresentano i nostri bisogni, il dove noi viviamo la nostra vita: amore, lavoro, e ciascuna di esse implica il fatto che io ne abbia coscienza. Poiché la psiche a questo punto appare dissociabile allo stesso modo la coscienza è policentrica, è rintracciabile ovunque nel tema natale. I miti e i loro racconti rappresentano la medesima struttura policentrica, sono personificazioni della psiche, ancor prima sono immagini. Il tema natale è psiche, anima, rappresentazione del Sé junghiano, è l’Olimpo personale abitato dalle divinità. Un modo di vedere la realtà attraverso il mito significa fare anima, ma non dobbiamo letteralizzarlo e interpretarlo, dobbiamo lasciare che si espanda in noi e faccia apparire naturalmente il suo senso nella nostra vita. Anche un semplice nome di un Pianeta, di un Segno possiedono un grande valore, così come alcune parole ad essi associati: vecchiaia, morte, trasformazione, amore. Ogni parola porta con sé almeno un dio e quindi un mito. Quando per esempio parlo di un aspetto astrologico e dei miti collegabili, pensiamo a Marte opposto da Urano e il cliente dice: mi sento nervoso, proprio in quel momento attraverso il racconto possiamo aiutare la psiche del cliente a personificare questo rapporto, a riconoscerlo, a dare valore agli dèi. Già questo è un inizio che permette non più di vedere il sintomo, nel nostro caso il sentirsi nervoso, come qualcosa d’incomprensibile e con cui non si può parlare, ma lo reifica in un mito, in un dio, in una storia che può essere rivissuta dal cliente, può addirittura fare delle domande al dio, pensare ai suoi significati e riflettere su come Marte, essendo il dio della guerra, possa essere messo in relazione con il suo nervosismo. Sono passaggi che il cliente dovrebbe fare in autonomia, accompagnato dall’astrologo, associando la storia e le caratteristiche di Marte alla sua emozione, al suo vissuto.
Gli dèi sono vere e proprie persone, i nostri complessi, le nostre difficoltà, la nostra vita in generale possono essere personificate da un dio, ma nel momento in cui cerchiamo di renderlo reale, tangibile o meglio cerchiamo di farne un concetto, per esempio il concetto di nervosismo, ne cogliamo solo una caratteristica. Quindi noi possiamo avere gli dèi senza concetti, ma non viceversa[11]. Prima della concettualizzazione c’è il mito. Questo è un altro valido motivo per considerare diversamente il tema natale che è l’espressione di divinità che poi diventano concetti e vita vissuta.
Quando ci avviciniamo al tema natale sperando che si dipanino in maniera chiara i suoi concetti e che ci parli in modo diretto del nostro destino commettiamo un grande errore perché chiediamo di fissare le immagini e quindi di delimitarle, deve essere il soggetto a riconoscersi nella narrazione, a usare l’immaginazione che è lo strumento regio per accedere all’anima mundi. Se io ho un trigono della Luna a Venere e sul manuale astrologico trovo che può rappresentare la dolcezza, il piacere, la disponibilità, l’accoglienza, sto parlando di Estia e di Afrodite, quindi se dico al consultante prova a immaginare che Estia e Afrodite parlino e vadano d’accordo, si raccontino le loro cose, ovviamente dopo che gli è stato spiegato cosa rappresentino le due divinità, avrò offerto la possibilità di utilizzare l’immaginazione e di accedere al proprio tema natale in modo immaginale e non direttivo e definitivo.
Noi pecchiamo contro l’immaginazione ogni volta che interroghiamo un’immagine per conoscerne il significato, pretendendo che le immagini siano tradotte in concetti.[12]
Il salto che dobbiamo imparare a fare anche con l’astrologia è far comprendere che per amore dell’immaginazione noi ricaviamo un significato e non viceversa.
Quando ascoltiamo della musica, tocchiamo una scultura o leggiamo un racconto non lo facciamo per ricavarne un significato, ma per amore dell’immaginazione.[13]
Le immagini che emergono da una carta del cielo devono essere descritte per quello che sono, non interpretate ma agendo in modo tale che il consultante pian piano possa farle proprie e immaginarsi lui stesso l’eroe o l’eroina del racconto, il principe, la principessa o il ranocchio.
Il lavoro della fantasia, più che alla contemplazione e allo yoga, e vicino alle arti, allo scrivere, al dipingere e al far musica. L’attività immaginativa è insieme gioco e lavoro, un penetrare ed essere penetrati […]”[14]
Quando scrivo non interpretate il tema natale intendo affermare che non bisogna dire: tu hai Venere in Vergine quindi sei così o hai questa tendenza, ma spiegare che Venere in Vergine ha tutto un ventaglio di significati, elencarli, narrarli e lasciare che sia l’interlocutore a riconoscersi in uno o più di loro. Potrebbe anche accadere che in quel momento non li veda e quelle descrizioni non gli dicono nulla, anche questo ha sicuramente un effetto utile sulla psiche del soggetto che non è visibile nell’immediato né a lui, né all’astrologo. Quando però il consultante trova il suo senso, si avvicina all’immagine è l’anima che lo permette, ovvero mette in atto la personizzazione. Una delle attività dell’anima è animare le immagini e personalizzarle, permettere all’uomo di darle un nome e confrontarsi con loro attraverso la riflessione. L’anima fa immagini in forma personificata[15].
Poiché l’anima ha bisogno di personificare, gli strumenti e i linguaggi che offrono queste possibilità sono quelli che più soddisfano la sua esigenza poiché lo scopo ultimo dell’anima è ricondurci a noi e farci essere felici, quindi trovare il buon daimon. Lo sfondo immaginale dell’astrologia è analogo se non più potente di quello dell’alchimia[16]. L’astrologia è il bestiario per antonomasia in cui possiamo trovare amori, paure, tensioni, deformazioni, gioie, percorsi eroici ed erotici, immersione nel regno dei morti e salita all’Olimpo, troviamo tutti gli dèi che non aspettano altro che essere riconosciuti, omaggiati e personificati da noi.
[1] J. Hillman, Psicologia archetipica, Giovanni Treccani, 2021, pag.51
[2] J. Hillman, Re-visione della psicologia, Adelphi, Milano, 1983, pag. 21
[3] J. Hillman, Psicologia archetipica, op. cit., pag. 53, 54
[4] J. Hillman, Re-visione della psicologia, op. cit., pag.14
[5] J. Hillman, Psicologia archetipica, op. cit., pag. 76
[6] Ivi, pag. 59
[7] ibidem
[8] J. Hillman, Re-visione della psicologia, op. cit., pag. 65
[9] Ivi, cfr. pag.58
[10] Ivi, pag. 63
[11] Ivi, cfr. pag. 85
[12] Ivi, pag. 89
[13] ibidem
[14] Ivi, pag. 90
[15] Ivi. Pag. 98
[16] Ivi, cfr. pag. 166