Articolo estratto dal nr. 1 di Astrolabor
L’astrologia può essere affrontata, dal mio punto di vista e in termini di validità, in due modi che le fanno mantenere la sua funzione: l’efficacia.
L ’ASTROLOGIA COME LINGUAGGIO SUGGESTIVO
L’astrologia può essere un linguaggio, con la sua semantica, sintassi, lettere, parole, dunque, permette di comunicare in modo diverso tra le persone e apre nuove prospettive di lettura della propria vita. Per esempio, anziché parlare dei miei problemi di amore, parlo di Venere-amore in un Segno specifico, quello in cui il pianeta si trova nel mio tema natale, con le sue caratteristiche, e quindi vedrò l’amore con le peculiarità di quel segno, ecc. Ragionare in questo modo fa rientrare l’astrologia nell’ambito della suggestione, dell’immaginazione, del vedere la realtà attraverso lenti diverse: siamo noi i costruttori della realtà che vediamo in funzione delle nostre scelte, dei nostri sistemi di riferimento utilizzati, in quest’ultimo caso dell’astrologia. Non si può non comunicare, affermava Paul Watzlawick, in uno dei suoi assiomi sulla comunicazione, quindi non se ne può fare a meno. Il discorso si può ampliare in mille modi, ma in ultima analisi stiamo parlando di un linguaggio che descrive la realtà con un alfabeto diverso. Una volta che ci si è accordati sull’alfabeto, lo si comprende, lo si utilizza, si possono confrontare i risultati rispetto alla visione di noi stessi e del mondo. Se prima di conoscere l’astrologia percepivo me stesso in un modo, dopo aver utilizzato l’astrologia come linguaggio mi percepisco in un altro modo, con altre consapevolezze o con quelle precedenti arricchite da un’altra prospettiva. La mia psiche, dunque, legge due realtà diverse a seconda del linguaggio utilizzato: possono collimare, essere simili, ma anche essere diverse, sono comunque due realtà utili per me, che mi permettono di ampliare la mia visione. Come si può capire, non si è parlato di rapporto fra pianeti e uomo, ma solo di linguaggio. Allo stesso modo, creando o utilizzando altri linguaggi, possiamo rileggere il mondo e noi stessi, non dobbiamo dimenticare che esistono infinite possibilità di linguaggi tante quante sono le infinite possibilità di leggere una realtà, non bisogna cadere nel monoteismo, nel credere che esista una sola realtà.1 Scrive Thomas Moore: « Se un oroscopo non viene guardato come una guida letteraria al comportamento o come soprannaturale ritratto della personalità, può essere preso come un sistema simbolico che ci porta euristicamente a riflettere sull’identità e sul destino. […] Un significativo vantaggio psicologico che offre la carta del cielo è il senso rituale di stabilire la propria unicità in uno scenario cosmico»2. Un’estensione di questo tipo di astrologia è quella causalistica che descrivo di seguito e che, secondo me, non deve essere usata per i motivi che si leggeranno. Come i bambini pensiamo a una causa e a un effetto: ci sono i pianeti e io sono così, vivo le mie vittorie, le mie sfighe a causa dei pianeti, restiamo immersi in una visione animista della realtà; non è un male, ma in questo modo ci deresponsabilizziamo e diamo le colpe o i meriti a cose al di fuori di noi, i pianeti. Già Platone nel racconto del mito di Er ammoniva, riferendosi alle scelte del proprio destino da parte dell’Anima: «La responsabilità, pertanto, è di chi sceglie. Il dio non ne ha colpa»3. Se poi utilizzassimo un pizzico di razionalità e senso di realtà, scopriremmo che una posizione di un pianeta nel tema natale non sempre corrisponde puntualmente con il nostro carattere, oppure che un transito positivo o negativo provochi un effetto su di noi, sia esso fisico, sia psichico, ma ognuno è libero di vedere e credere quello che lo fa star meglio: non deve dimenticare,
però, che in questo modo diventerà dipendente dagli astri, da chi li interpreta, e vivrà nel timore dei futuri passaggi planetari. Attraverso questa interpretazione rientriamo nell’ipotesi dell’astrologia come linguaggio, l’uso che faccio del linguaggio condiziona il mio punto di vista sul mondo, ma potrei utilizzare l’astrologia come linguaggio eliminando il paradigma della causa ed effetto: è questo che fa la differenza nell’esempio appena portato, e sarebbe meglio farlo, secondo me, per non essere inutilmente invischiati nelle dinamiche descritte.
L’ASTROLOGIA COME LINGUAGGIO SINCRONISTICO
Un’altra maniera di pensare la validità dell’astrologia passa attraverso alcuni concetti mutuati dalla psicologia analitica di C. G. Jung. Ora, proviamo a pensare: esistono i pianeti in cielo, noi nasciamo in un determinato giorno, mese, anno, città, ora e «… abbiamo – come i vini celebri – le qualità dell’anno e della stagione che ci hanno visti nascere. L’Astrologia non pretende altro.». Questi pianeti, segni, aspetti, sono il nostro tema natale, il nostro “destino” che dobbiamo cercare di adempiere consapevolmente o inconsapevolmente. Il destino non è qualcosa che subiamo, ma è l’espressione delle infinite possibilità di una forma. L’altro modo è cercare una teoria che spieghi questo linguaggio, il suo apparente collegamento fra cielo e uomini. Il collegamento fra cielo e uomini, ma non solo questa visione del mondo e degli accadimenti, può essere spiegato attraverso il concetto di sincronicità junghiana che sottende, in un certo qual modo, il fatto che la realtà che viviamo segua un fine nascosto, un telos, un destino già scritto, ma che possiamo conoscere solo vivendolo. Jung ha iniziato a riflettere, probabilmente, su tale concetto leggendo Schopenauer che ricordava, a proposito degli eventi che ci capitano e del destino: «A comprendere meglio la cosa può servire la seguente considerazione generale. “Casuale” accenna a un incontro nel tempo degli elementi non collegati causalmente. Non vi è nulla però di assolutamente casuale, e anche ciò che sembra massimamente tale non è altro se non qualcosa di necessario, che si realizza in modo attenuato.»4.
E aggiunge, dopo, riferendosi all’azione da parte dell’uomo che crea il suo destino che: «…ogni individuo riconosce immediatamente e sicuramente quanto è più consono al suo carattere, a tal punto che di regola egli non accoglie tutto in una coscienza chiara e riflessa»5.
L’uomo, dunque, a seconda del suo carattere agirebbe nel mondo e, proprio grazie a esso, creerebbe il suo destino inconsapevolmente. Banalmente, se sono nervoso alla guida avrò più probabilità di fare un incidente. Il telos è la direzione che segue il nostro carattere, come ricordava Hillman, il Destino è la carta di nascita. La conoscenza del nostro carattere, può quindi indirizzarci verso il nostro destino in modo più consapevole, e ciò ha certamente dei vantaggi.
La nascita è legata sincronisticamente agli astri che segnano il tempo terrestre, ma gli astri sono la personificazione degli dei, sono loro che segnano la mappa del nostro destino, sono la proiezione cosmica del nostro inconscio. Ma come sappiamo che ci hanno “segnato” ovvero che ci influenzeranno per il resto dei nostri giorni? Possiamo scoprirlo quando, a fronte della nostra vita reale, leggendo il tema natale scopriamo una relazione profonda fra quello che sentiamo di essere e il racconto astrologico, l’interpretazione del tema. Quando racconto un tema natale, omettendo l’utilizzo del nome dei pianeti ma rifacendomi alle divinità, alle loro storie, sensazioni, sentimenti, permetto al soggetto di immaginarsi come uno degli eroi, uno dei personaggi, a sua scelta: qui si attiva la sincronicità, è il consultante che ne coglie il senso e lo fa proprio; gli archetipi si costellano diventano storie archetipiche, la sua realtà. Questa è l’influenza degli astri, scoprire il senso che hanno per noi, che è il telos, il destino, la strada verso il Sé. Questo senso può essere scoperto in modi diversi e attraverso metodi diversi, non solo l’astrologia e la psicoanalisi, ma tutto ciò che permette alle immagini interiori, alle storie non ancora nate all’esterno di prendere forma. Noi siamo la nostra storia, quando moriamo lasciamo come traccia la nostra storia, il nostro carattere storicizzato. A conferma di quanto appena esposto e dell’importanza del mito, possiamo leggere: «Jung sollecitava inoltre costantemente gli analizzandi a cercare una propria Weltanschauung, una “visione del mondo”, “qualcosa in cui credere”, il proprio “mito” qualcosa che avrebbe dato “significato” alla loro vita: riteneva, infatti, che la meta dell’individuazione, il Sé (Selbst), fosse il “principio e l’archetipo dell’orientamento e del significato. In ciò sta la sua funzione autoguaritrice”. Riconosceva anche che “dà un senso di pace, sentire di vivere un’esistenza simbolica, di essere partecipi del dramma divino. Questo soltanto dà significato alla vita umana: tutto il resto è banale e si può accantonarlo. Avere dei figli, una carriera: tutto ciò che è maya in confronto a quell’unica cosa: un’esistenza che abbia senso».6
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1 P. Watzlawick, La Realtà della Realtà; 2 T. Moore, Pianeti Interiori; 3 Platone, Repubblica 4 A. Schopenauer, Parerga e Paralipomena; 5 ibidem; 6 Ferdinando Testa, La clinica delle immagini