LE PREVISIONI DEL MESE DI MARZO PER I PESCI IN UN RACCONTO
Leggendo il racconto del mese, realizzato alla luce dei transiti astrologici che coinvolgono il Segno in marzo 2019, potrete cercare di comprendere quali saranno le emozioni, le sensazioni che voi Pesci vivrete in questo periodo.
Cercate d’immergervi nella storia, fare parallelismi con la vostra vita reale per scoprire, se c’è, un nesso con il racconto, con il personaggio.
Stupor vitae
di Domizia Moramarco
La grana porosa e ruvida dei fogli immacolati scorre sotto le mie dita, imperlandosi di piccoli aloni. Le mie mani, perennemente sudaticce, lasciano ogni volta questa umida sfumatura al mio passaggio. Non dimentico la mia timidezza in mezzo agli altri sin dai primi anni di scuola quando, durante le lezioni, mi ritrovavo fuori dal banco, proiettato nel mio mondo fantastico a osservare i fiumi che danzavano specchiandosi nei loro letti in piccoli vortici e si innalzavano in cascate variopinte, da cui spiccavano il volo nuvole di colibrì. Avevo la testa per aria, dicevano le maestre ogni qualvolta mi riprendevano, e così anche i compagni avevano preso a schernirmi in continuazione.
Una volta mia madre aveva assistito alla scena di un spintonamento al suono della campanella. Ricordo come fosse oggi i compagni di classe che prima mi circondano e subito dopo allungano le braccia per lanciarmi dalle scale. I loro sguardi, feroci, mi annebbiano la vista mentre tento di aggrapparmi alle compagne che formano la fila antistante, ma anche queste si scostano, facendomi precipitare sugli ultimi scalini. E allora rotolo a peso e mi ritrovo sul marciapiede, con lo zaino pesante rovesciato sulla testa. Mia madre, donna dallo sguardo vitreo sul mondo ma perennemente vigile su di me, immediatamente accorre, mentre le maestre dicono: “Finirai davvero per farti male, un giorno! Sei troppo distratto e non vedi mai dove metti i piedi.” Un coro di risate sovrasta la calca di alunni che mi scansa con indifferenza, mentre mia madre la fende come una guerriera furibonda che stringe nervosamente la borsa, quasi fosse la sua pelta difensiva. Durante il tragitto di ritorno in macchina, aveva cominciato a tempestarmi di domande: “Giacomo, ma i tuoi compagni non sono affatto carini con te! Da quanto tempo va avanti questa situazione?” “Ma no, mamma – avevo ribattuto prontamente cacciando le lacrime in gola – sai, in classe abbiamo fatto alcuni esperimenti sulla forza di gravità e io ho voluto provare cosa succede se ti lanci dalle scale”. Tirando su le guance, forzatamente, le avevo lanciato un abbozzo di sorriso che l’aveva seriamente insospettita. “Giacomo – mi aveva detto con un’inaspettata espressione risoluta – devi dirmi se qualcuno ti maltratta in classe e io andrò a parlare con le tue insegnanti”. “Non è necessario, te l’ho già spiegato, mamma, è stato solo un gioco per me.” “Non mi è sembrato affatto un gioco, ma uno scherzo davvero crudele!” Quelle parole al momento un po’ mi avevano rassicurato, ma subito dopo, dinanzi al silenzio e allo sguardo perso della donna rannicchiata al volante, avevo capito che era solo l’ennesima presa di posizione verbale, che non si sarebbe concretizzata in presa di iniziativa.
Dieci anni dopo mi ero diplomato al liceo classico e avevo intrapreso gli studi in giurisprudenza, così come voleva mio padre, tra i più affermati avvocati milanesi. Erano stati anni faticosi, rinchiuso nella mia stanza a memorizzare miriadi di codici, a masticare, come aveva detto Kafka, segatura, mentre le gambe, intorpidite sotto i pesanti banchi delle aule universitarie, diventavano macigni mentre attraversavano i lunghi corridoi scrostati della storica struttura. Tuttavia, gli immani sforzi di quegli anni mi avevano fatto portare a termine gli esami nei tempi prestabiliti e adesso ero pronto a scrivere la tesi e a laurearmi per la prossima primavera. Dopo … chissà, o meglio, so bene cosa mi aspetta, mio padre mi attende nel suo studio.
Lancio lo sguardo verso la scrivania. È sommersa dai fogli pieni di schizzi, sfregati a carboncino, ora con tratteggi decisi e ombre, oscure al punto da offuscare i soggetti, ora con tratti leggeri e sfumati, a creare effetti evanescenti. Uccelli in volo, cani al guinzaglio, corolle di fiori che si aprono rivelando un arcano e fugace movimento, tutti attimi catturati furtivamente durante le passeggiate selvatiche, lontane dal traffico dei mezzi pubblici che sfilano a tutte le ore del giorno in Corso Italia, dove mio padre mi ha affittato un monolocale ben arredato. Accarezzo alcuni di questi schizzi imbrattandomi le dita che subito sfrego contro i jeans scoloriti che, mi accorgo soltanto adesso, indosso da ieri. Mi sono addormentato senza spogliarmi e adesso comincio a sentire l’odore stantio della t-shirt stropicciata. È vermiglia, di una tonalità talmente viva, che mi rende eccitato nonostante le poche ore di sonno. Di solito indosso solo indumenti dai colori tenui, ma sono settimane che non faccio il bucato e ho ripescato dal fondo dell’armadio questa maglia regalatami, credo, anni fa, da mio padre. Sono inquieto. Da settimane l’insonnia non mi dà tregua, mi sveglio d’improvviso e comincio a contare i minuti che si alternano, sulla parete, nel riflesso fosforescente della sveglia digitale.
Rinchiudo le matite nelle scatole e corro alla finestra, dove sul davanzale è rimasta la tela ad asciugare dal giorno prima. Brevi tratti di alberi spogli, dai fusti ingrigiti e deformati su un letto crepitante di foglie rinsecchite. Lo sfondo, indefinito, sbiadisce in tonalità azzurrognole sempre più chiare, fino a diventare trasparente. Afferro la tela e la adagio al centro della stanza, sullo smilzo cavalletto, che ho preso a chiamare Billy, proprio come il mio amico immaginario d’infanzia. Mi faceva compagnia, anche se raramente mi rispondeva. Sapere che era sempre accanto a me, alleviava la solitudine in cui sprofondavo quando mio padre si assentava per i suoi viaggi di lavoro e mia madre restava chiusa in camera a guardare vecchie fotografie. “Sei sempre così magro, tu, dovresti mangiare di più” dico a Billy rivolgendogli uno sguardo preoccupato. Poi vado alla ricerca delle scarpe da tennis, completamente logore, disperse sotto il letto sfatto, le infilo e mi dirigo verso la porta. La richiudo, deciso, alle mie spalle.
È giorno di mercato, le bancarelle invadono i marciapiedi e i teli attutiscono il vociare continuo che si innalza dalla piazza. Come un viandante ingoiato da una strada invisibile, i contorni della mia sagoma sfumano tra la gente. Sento ogni volta che si fondono con quelli altrui: nell’orlo sudicio e sbrandellato della giacca in cui un senzatetto si avvolge all’angolo della strada, nel cotone del filo stropicciato di un palloncino stretto forte tra le mani di un bambino, nella cravatta che costringe il collo taurino di un consulente che corre, ansimando, o nella presa decisa di una madre al suo bambino alla fermata del semaforo. I sospiri, gli affanni, gli odori giungono a me improvvisi e si incollano agli indumenti. Sento fluire nelle vene ogni liquida emozione che il mondo intorno a me si impegna a nascondere.
Raccolgo dietro le orecchie le ciocche allungate della frangia, che negli ultimi mesi ho deciso di non accorciare più. Sotto le suole l’asfalto ribolle, ma i miei passi, affondando nel conglomerato di bitume le cui esalazioni disturbano il mio stomaco, persistono solerti, non cercano tregua in questa torrida giornata di fine giugno. Mi rendo conto di aver camminato a lungo solo quando mi sorprendo a costeggiare la basilica di San Nazaro in Brolo. I mattoni rossi si confondono con la mia t-shirt. Tutti quei portali murati mi fanno sentire soffocato, anelo frescura e invece incontro davanti a me solo sbarramenti. Mi dirigo, invece, quasi istintivamente, verso la parte centrale del monumentale edificio di origine rinascimentale che è la Ca’ Granda, dove ha sede l’Università che frequento. Raggiungo la parte centrale, il cortile del Richini dalla pianta quadrata. Circondato da questa sontuosa architettura, che sembra ogni volta sbattermi in faccia le sue vivaci decorazioni in contrapposizione all’ordine rigoroso di stampo brunelleschiano, sento una voragine farsi spazio nello stomaco. Le viscere si avvolgono su se stesse, proprio come i lungi archi che si tengono per mano sulla facciata principale dell’edificio. Come bravi alunni che rispettano la loro fila durante la marcia all’uscita di scuola, mi osservano e sembrano punirmi con i loro sguardi nitidi e severi. Mi sento giudicato, il tormento che viene a trovarmi tutte le notti ha preso forma e avverto una mano invisibile che prima mi comprime le orecchie, poi soffoca i polmoni e infine immobilizza gli arti inferiori. Ora ho freddo, il sudore che cola lungo la schiena sta per pietrificarsi e io diventerò una rigida colonna al centro del cortile, attorno alla quale presto fiorirà un lungo rametto di edera, come quella che protesse Dioniso dall’incendio del corpo materno.
Qualcuno mi scuote dalle spalle. Il suono della sua voce giunge a me ovattata, mentre dal labiale intuisco che mi chiede se ho bisogno di aiuto. Lentamente tutto intorno a me si rianima. I mattoni della struttura riprendono contorni e colori, gli archi tornano a muoversi nel loro infinito girotondo, i mezzibusti a rilievo dai loro tondi medaglioni lanciano sguardi di velata compassione. Mi ero perso, in mezzo a quel luogo che conosco bene da anni e adesso riconosco la rotta che mi ha condotto fin qui. Non la solita strada per incontrare il relatore della tesi. No. Questa volta sono state loro, le voci antiche che hanno animato, pietra su pietra, nella miscela di acqua e sabbia che essiccandosi creava la forma, la magnificenza della struttura in cui sono adesso, alle quali finalmente comincio a dare ascolto. “Non posso – dico alla studentessa che è accorsa in mio aiuto – non posso laurearmi e fare quello che desidera mio padre.” Lo sguardo sbalordito che mi rivolge mi spinge a proseguire senza interruzione: “Non è questo che io voglio! Io voglio dar vita, un giorno, a tutto questo, alla meraviglia che nasce dallo stupore che sorprende chi si ferma a guardare e scopre che ciò che è fisso, in realtà di muove.”
Riprendo i miei passi, questa volta a ritroso, per condurmi laddove la voce del cuore da sempre mi chiama. Porterò Billy con me, a spasso per le strade di una vita di cui tracciare, ogni volta, nuovi confini sulle tele che daranno forma alla mia esistenza.