Un estratto dal mio libro: Astrologia. Perché funziona?
L’inconscio collettivo
La psicologia “indaga i fondamenti della coscienza, ossia persegue i processi consci fin quando questi si oscurano fino a diventare irrappresentabili“, scriveva Jung[1], e ciò conduceva alla concezione dell’inconscio come limite. Jung riconosceva, comunque, l’impossibilità di delimitare con un confine netto le zone dell’inconscio e della coscienza, giacché non solo vi era una scala d’intensità di coscienza nell’ambito stesso della dimensione conscia, una differenza abissale o una vera e propria antitesi tra ‘io faccio’ e ‘io sono cosciente di ciò che faccio’.
Ma, man mano che cresceva la differenziazione tra la coscienza (strati alti della psiche) e l’inconscio, questo tendeva sempre più a un livello primitivo, arcaico, mitologico, accostandosi così alla forma istintuale e alle caratteristiche dell’impulso, quali l’automatismo e la non influenzabilità. Il che significava, continuava Jung, che i concetti di coscienza e di inconscio erano relativi, perché non c’era contenuto di coscienza che non fosse inconscio sotto un altro aspetto e, forse, non c’era neanche psichismo inconscio che non fosse al tempo stesso conscio. Jung nel 1950 ripeteva che, penetrando un poco più a fondo sotto la superficie dell’anima, ci si imbatteva in “strati storici”, i quali non erano lettera morta, bensì continuavano a vivere e ad agire in ciascun essere umano perché “la coscienza individuale è solo il fiore e il frutto di una stagione, germogliato dal perenne rizoma sotterraneo e che armonizzerebbe meglio con la verità se tenesse conto dell’esistenza del rizoma, giacché l’intreccio delle radici è la madre di ogni cosa“[2]
L’inconscio era, dunque, visto come il numinoso che era al di là di ogni possibilità di definizione, che poteva talora esser personificato, come nel caso del demone o di Dio, rimanendo comunque oltre il limite della coscienza, sulla quale si potevano solo cogliere gli effetti. Jung poneva l’accento sul fatto che l’inconscio era un “concetto limite esclusivamente negativo“, sebbene dalla constatazione di alcuni effetti sulla coscienza si dovessero assegnargli dei contenuti ipotetici, pur senza poter affermare nulla di positivo sulla sua natura e usando una terminologia di mero valore pratico. La reale natura dell’inconscio non poteva essere determinata obiettivamente, perché l’atto stesso dell’osservazione alterava l’oggetto osservato, la psiche non poteva essere distinta dalle sue manifestazioni: essa era insieme soggetto e oggetto della psicologia; non si poteva affermare qualcosa sull’inconscio, ma abbozzare un modello che non aveva alcuna valenza oggettivistica, indicando solo un determinato modo di considerare le cose.[3]
E’ questo il principio fondamentale del Logos che eternamente lotta per liberarsi dal calore e dal buio del grembo materno, dall’incoscienza. Senza arretrare di fronte a nessun conflitto, dolore o peccato, la divina curiosità aspira a emergere. L’incoscienza è per il logos il peccato originale, il male per eccellenza. Il suo atto liberatorio, quello che crea il mondo, è il matricidio, e lo spirito, che aveva osato sfidare tutte le altezze e le profondità, deve, come dice Sinesio, subire allora la punizione divina: l’incatenamento alla rupe del Caucaso. Niente può esistere, infatti, senza il suo opposto, perché entrambi erano al principio Uno, e Uno saranno nuovamente alla fine. “La coscienza può esistere solo con il costante riconoscimento e rispetto dell’inconscio, così come tutto quello che è vivo deve passare attraverso varie morti“[4]. La coscienza si era sviluppata, storicamente e individualmente, dall’oscurità e dal crepuscolo dell’inconscio primordiale, perché processi e funzioni psichiche erano esistiti ben prima che vi fosse stata una coscienza dell’Io. Ciò che è importante sottolineare era che Jung ponesse la primordiale oscurità della Totalità indifferenziata (l’inconscio) a fondamento della coscienza: “l’inconscio è madre della coscienza. Ma dove c’è una madre c’è anche un padre per quanto ignoto egli possa apparire. La coscienza, giovane creatura, può rinnegare il padre, non la madre“[5]. L’inconscio era per Jung il femminile, era l’oceano, il mondo infero in cui l’eroe doveva discendere uccidendo il mostro, era il regno delle Madri, vale a dire delle immagini primordiali; ma il padre ignoto che poteva essere rinnegato, però non per questo meno presente, chi era? La risposta potrebbe venire da una lettera del 1932 in cui l’Autore scriveva: “Io asserisco che la madre è solo un aspetto dell’inconscio, vi è anche un aspetto padre, benché non attribuirei a questi aspetti più di un necessario illusorio carattere, dovuto alla difficoltà mentale di concepire qualcosa che non sia concreta e all’incapacità del nostro linguaggio di esprimere qualcosa che non sia un’immagine verbale“[6]. Come dire che ogni cosa era inscindibile dal proprio opposto, ma la coscienza non poteva cogliere nulla se non attraverso un’illusoria determinazione di essi, però nell’inconscio tutto era in tutto (complexio oppositorum).
L’inconscio era “una illimitata distesa piena di inaudita indeterminatezza, priva di apparenza di interno e di esterno, di alto e di basso, di qua e di là, di mio e di tuo, di buono e di cattivo. È il mondo dell’acqua, in cui è sospesa, fluttua ogni vita, dove comincia il regno del <<simpatico>>, l’anima di tutto ciò che è vivo, dove io sono inseparabilmente questo e quello, dove io sperimento in me l’altro e l’altro-da-me sperimenta me stesso“[7]. L’inconscio poteva così essere inteso come l’irraggiungibile Abisso che si proponeva come l’aldilà della coscienza nella sua decostruzione verso strati sempre più profondi, verso l’Arcaico che sorgeva dalla notte dei tempi e dal buio indifferenziato dell’Unità, che era oltre la coscienza, pur comprendendola. “L’inconscio collettivo […] è oggettività ampia come il mondo, aperta al mondo […] nel pieno rovesciamento della mia coscienza abituale […] mi trovo totalmente e direttamente collegato con il mondo intero“[8], ma venire a contatto con il pleroma dell’inconscio significava trasformarsi in esso e, per evitare questo pericolo e consolidare la coscienza, erano stati elaborati i riti, le rappresentazioni collettive, i dogmi. Secondo Jung il rapporto più autentico che l’Io potesse avere era quello con l’inconscio collettivo; ne conseguiva che la funzione dell’altro e, quindi, la dimensione etica, erano estremamente limitate. E’ importante sottolineare che il concetto di inconscio collettivo comportava che la via individuale fosse una nékyia nel proprio interno, perché il Sé era nella solitudine e nel silenzio delle profondità dell’anima: “Chiunque infatti si appropri anche di un unico frammento dell‘inconscio, con il prenderne coscienza esce un po’ fuori del proprio tempo e del proprio strato sociale e finisce nell’eremos) nella solitudine […]. Ma soltanto in tale dimensione si ha la possibilità di incontrare il <<dio della salvezza>>. Infatti la luce diviene evidente nelle tenebre, e ciò che salva si manifesta nel pericolo“[9]
L’inconscio aveva una singolare atemporalità: “tutto è già accaduto e non ancora accaduto, già morto e non ancora nato” scriveva Jung. La sua atemporalità “vive nell’uomo creativo, si manifesta nella visione dell’artista, nell‘ispirazione del pensatore, nell’esperienza interiore del mistico. L’inconscio sovrapersonale è, m quanto struttura universale del cervello, uno spirito universale <<onnipresente>> e <<onniscente>>. Esso però conosce l’uomo come è sempre stato, non come è in questo momento: lo conosce come mito. Entrare in rapporto con l’inconscio collettivo significa la morte della natura personale dell’individuo e la sua rinascita in una nuova sfera, come negli antichi misteri“[10]. E ancora: “A questo livello [psichico] collettivo non siamo più individui separati, ma siamo tutti una cosa sola […], questa unità di soggetto e oggetto, questa participation mystique“[11]. Queste parole sono estremamente chiare per capire quale era la portata ontologica e monistica del pensiero di Jung. L’inconscio collettivo era, dunque, di natura sovrapersonale e i suoi contenuti erano gli archetipi, mentre quelli dell’inconscio personale erano i complessi a tonalità affettiva.
Nell’inconscio collettivo vi erano forme e istinti innati, ma non nella loro attualità, bensì nella loro possibilità, nel loro schema paragonabile al reticolo cristallografico, che erano preformati nel cervello come immagini originarie, contenenti l’intero patrimonio dei motivi mitologici in base ai quali l’uomo ha sempre pensato[12]. Occorre comunque dire, per completare il quadro, che Jung concepiva l’inconscio organizzato concentricamente, a modo di mandala, solo nella sua ultima grande opera, il Mysterium Coniunctionis, ove tutto era strutturato secondo l’architettonica dell’Unus Mundus. Negli anni precedenti egli aveva visto difficilmente supponibile nell’inconscio un principio dominante analogo all’Io, data la caoticità e l’incomprensibilità dei suoi materiali per la mente normale. Ogni organizzazione dei materiali inconsci proveniva dalla coscienza. Solo negli ultimi anni Jung avrebbe posto ogni strutturazione di senso nell’inconscio, accentuando il carattere della coscienza individuale come di un sogno del Sé. L’uomo, tramite l’Astrologia, può cercare di raggiungere il proprio Sé attraverso gli archetipi, come si leggerà più avanti, poiché la coscienza in qualche modo sarà “illuminata”, “attivata”, da loro, sempre che il soggetto sia pronto e lo voglia consapevolmente.
I contenuti particolarmente pregnanti dell’inconscio collettivo erano da Jung indicati precipuamente nella “somma degli istinti e dei loro correlati, gli archetipi. Come ogni uomo possiede degli istinti, così possiede anche le immagini originarie“, giacché “gli archetipi sono forme tipiche della comprensione, e dovunque si tratta di percezioni uniformi che si ripresentano regolarmente si ‘ tratta di un archetipo“[13] e essi sono elementi immodificabili. Per capire meglio questi concetti, vediamo la ricostruzione che Jung stesso dava in un’aggiunta, di data ignota, ad una conferenza del 1916, poi confluita nella prima parte dell’ L’Io e l’inconscio (1928). Posto che con “mondo reale va inteso molto in generale quel contenuto della coscienza consistente da un lato nell’immagine percepita del mondo, dall’altro nei sentimenti e nei pensieri coscienti che tale immagine suscita“, l’inconscio collettivo “contiene, ovvero è, l’immagine speculare storica del mondo“: era il mondo delle immagini della realtà esterna quale si era configurata mediante le sedimentazioni filogenetiche di percezione e d’adattamento[14].
Infatti, scriveva 1’Autore, “di per se stesso l’inconscio collettivo non esiste neppure, in quanto non è altro che una possibilità, quella possibilità appunto che noi ereditiamo da epoche remote in forme determinate d’immagini mnestiche […] trasmesse ereditariamente nella struttura del nostro cervello. Non esistono rappresentazioni innate, ma possibilità innate di rappresentazioni“[15]. In questo senso si può dire che tali possibilità di rappresentazioni avevano un modus trascendentale perché erano “in certo qual modo idee a priori la cui esistenza non è dimostrabile senza l’esperienza. Esse appaiono solamente, nella materia formata, quali principi regolatori della sua formazione“[16], ed era solo attraverso la ripetizione di innumerevoli esperienze ataviche che tali possibilità di rappresentazioni si raggruppavano in schemi o monogrammi, costituenti le immagini primordiali o archetipi. Da quanto è qui detto, sembra potersi affermare che l’immagine primordiale, o archetipo, era il solco mnestico che era impresso dalla ripetizione costante dei rapporti ambientali, attraverso i millenni delle origini, nella struttura psicobiologica dell’essere umano, e che dava luogo a forme pure, senza contenuto. L’inconscio diveniva così, nella visione junghiana, il datore di senso dell’uomo che si considerava agente autonomo e non sospettava di dipendere e di esser guidato da un’entità che non conosceva. Ma, sebbene fosse l’inconscio a contenere il simbolo compensatorio della totalità, era nella natura istintiva, animale, che si trovavano le profonde potenze che determinavano il destino dell’uomo, la coscienza poteva però intervenire in modo significativo. Infatti: “Non sono io che vivo, ma è la vita che vive me. L’illusione della supremazia della coscienza ci fa dire: io vivo. Ma non appena quest’illusione venga infranta dal riconoscimento dell’inconscio, quest’ultimo apparirà allora come qualcosa di oggettivo in cui è contenuto l’Io […] Si prova in certo qual modo la sensazione di <<essere sostituiti>>, il che non implica però quella di <<essere destituiti>>“[17]. Il rapporto tra l’Io e l’inconscio andava rovesciato, nel senso che l’inconscio era il generatore della personalità empirica, avrebbe detto Jung nell’ultima fase del suo pensiero perché “la vera psiche è l’inconscio, mentre la coscienza dell’io può essere considerata soltanto un epifenomeno temporaneo“[18]. Questo passaggio è fondamentale poiché ci permette di ipotizzare che l’Astrologia funzioni sia perché, essendo “creduta”, in qualche modo colora di significato gli archetipi e, quindi, la loro rappresentazione archetipica prende forma, è messa a disposizioni per tutti gli uomini. Se il ripetersi di riti, di credenze e di linguaggi modella la forma degli archetipi, allora il ripetersi nel tempo del rito della lettura astrologica, del credere all’esistenza simbolica delle divinità che popolano il cielo con determinate caratteristiche, garantisce l’esistenza e la validità dell’Astrologia.
Sul piano empirico-psicologico egli avrebbe detto che “l’inconscio collettivo è la poderosa massa ereditaria spirituale dello sviluppo umano che rinasce in ogni struttura cerebrale individuale. La coscienza invece è un fenomeno effimero, che serve agli adattamenti e orientamenti momentanei“[19], ma sono le forme preesistenti dell’inconscio collettivo, gli archetipi, a dare forma determinata ai contenuti psichici. Ancora, nella sua ultima grande opera Jung intendeva la psiche umana come la ricapitolazione stratigrafica del modo d’essere dell’umanità passata, della preistoria, del mondo dei sauri a sangue freddo fino “al livello più profondo, al mistero trascendente e il paradosso dei processi psicoidi del simpatico e del parasimpatico”[20]. L’inconscio collettivo non era un dato psicologico puro, ma aveva una profonda base organica; la sua permanenza di comportamento attraverso i tempi era dovuta alla permanenza del funzionamento cerebrale, che non si riduceva però a una attività puramente riproduttiva, perché la struttura cerebrale non raccontava la storia oggettiva, la storia fatta dall’uomo, ma la storia dell’umanità, “ossia il mito incessante di morte e rinascita e le molteplici figure che popolano questo mistero“, rivelante la sua vivente presenza solo nella fantasia creativa. Se dal punto di vista biologico “l’inconscio collettivo è semplicemente l’espressione psichica dell’identità della struttura cerebrale al di là di ogni differenza di razza“, dal punto di vista puramente psicologico, le linee dello sviluppo psichico partivano da un passato comune di “istinti di rappresentazione (immaginazione) e di azione. Ogni rappresentazione e azione conscia si è sviluppata su queste immagini archetipiche inconsce, con le quali rimane in costante relazione“[21].
[1] C. G. Jung, La dinamica dell’inconscio, op. Cit. Pag .246
[2] C. G. Jung, Libido Simboli Trasformazioni, op. cit. pag. 13.
[3] Cfr. C. G. Jung, La dinamica dell’inconscio, op. cit., pag. 203.
[4] C. G. Jung, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, op. cit., pag.95.
[5] Ibidem.
[6] C. G. Jung, Letters 1906-1950, Princeton University Press, Princeton 1973, vol. I, pag. 91.
[7] C. G. Jung, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, op. cit., pag. 20.
[8] Ibidem.
[9]C. G. Jung, Mysterium coniunctionis, op. cit., pagg. 191-192.
[10] C. G. Jung, Civiltà in transizione: il periodo fra le due guerre, op. cit., pag. 9
[11] C.G. Jung, Psicoanalisi e psicologia analitica, op. cit., pagg. 56-57.
[12] Cfr. C. G. Jung, La dinamica dell’inconscio, op. cit., pagg. 332-333 e n.
[13] C. G. Jung, La dinamica dell’inconscio, op. cit., pag. 155.
[14] C. G. Jung, Due testi di psicologia analitica, op. cit., pag. 300.
[15] C. G. Jung, Civiltà in transizione:Jl periodo fra le due guerre, op. cit., pag. 351.
[16] Ibidem.
[17] C. G. Jung, Ricordi Sogni Riflessioni, op. cit., pag. 361.
[18] C. G. Jung, Pratica della psicoterapia, op .cit., pag. 101.
[19] C. G. Jung, La dinamica dell’inconscio, op .cit., pag. 76.
[20] C. G. Jung. Mysterium coninuctionis, op. cit., pag. 203.
[21] C. G. Jung, Studi sull’alchimia, op. cit. pagg. 23-24..